Articolo di Silvia Bordonali, nostra associata che ha seguito il corso in Comunicazione e Divulgazione scientifica
Un argomento molto dibattuto nella comunità scientifica è quello riguardante l’ “autoconsapevolezza”, ovvero la capacità che un individuo ha di percepire sé stesso.
Se stai leggendo questo articolo sei un membro della mia stessa specie, Homo sapiens, e pertanto sicuramente sai di possedere questa capacità; penserai forse che tu l’abbia sempre avuta, invece è provato che anche gli esseri umani la sviluppano via via durante la crescita, e appieno soltanto intorno al secondo anno di età.
Per contro, non possiamo essere sicuri se e come gli individui appartenenti ad altre specie animali percepiscano loro stessi.
Uno degli stratagemmi messi a punto dagli scienziati per testare questa capacità è il cosiddetto “test dello specchio”. Tale “trucco” prevede l’utilizzo di uno specchio di dimensioni adeguate per la specie che si vuole testare, posto in un ambiente familiare agli individui in osservazione, e consiste proprio nell’osservare come si comportano trovandosi di fronte a esso, e, quindi, al proprio riflesso.
I primi, pioneristici esperimenti di questo tipo sono stati eseguiti negli anni ’70 sulle scimmie, e poi vent’anni fa sui delfini (Tursiops truncatus) e hanno dimostrato che la consapevolezza di sé non appartiene solo agli umani ma potrebbe essere estesa anche ad altri animali.
Le scimmie antropomorfe sono state i primi indiziati, ma, sorprendentemente, il medesimo test dello specchio replicato sulle varie specie della superfamiglia “ominoidi” (quel gruppo dell’albero evolutivo che mette insieme Homo sapiens e altre scimmie antropomorfe come ad esempio scimpanzè e gibboni), fallisce su alcune specie, a indicare come non sia un indicatore del tutto affidabile. Le medesime osservazioni sono state fatte anche per i cani (Canis lupus familiaris), che, messi davanti a uno specchio, dimostrano di non riuscire a superare il test. D’altra parte (e questa è probabilmente la maggiore obiezione mossa a questo tipo d’indagine, come strumento per misurare l’autoconsapevolezza in modo assoluto) bisogna considerare che i cani –come molte delle scimmie della superfamiglia di cui in precedenza, e a differenza degli umani- non usano la vista come senso principale, bensì l’olfatto. Per testare l’autoconsapevolezza di un animale che percepisce la realtà in maniera così diversa da come facciamo noi, occorre un test differente, e questa è proprio la ragione per cui in studi più recenti si è utilizzato sui cani un “test dello specchio olfattivo”. Il soggetto esaminato durante questo test aveva la possibilità di annusare i contenitori con la sua urina tal quale oppure la sua urina e un elemento che ne modificava parzialmente l’odore: gli esaminatori hanno osservato che è stato speso significativamente più tempo a investigare il campione modificato che quello originale, come se fosse riconosciuto come “altro” da sé.
In altre parole: il test dello specchio è uno stratagemma utile per mettere alla prova questo comportamento, ma il suo fallimento non dimostra necessariamente l’assenza di questa capacità nella specie che non lo supera.
Sulla scia dei primi risultati interessati, la ricerca è stata allargata ad altre specie, e i candidati migliori sono apparsi gli elefanti, per tutta una serie di buone ragioni. Prima di tutto per ragioni “pratiche”: sono facili da osservare e sono dotati di un’appendice mobile (la proboscide) con cui riescono a toccare quasi per intero il proprio corpo, e questa capacità torna molto utile nella valutazione della seconda fase del test, cioè il “mark test”.
Gli elefanti (Elephas maximus) messi davanti allo specchio nello zoo del Bronx (NYC), in uno studio del 2006, hanno assunto comportamenti “esplorativi”; mettendosi a fare cose che normalmente non farebbero in presenza di altri elefanti, e dando per certi versi l’idea di utilizzare lo specchio per compiere una sorta di auto-ispezione (comportamento già osservato nelle scimmie antropomorfe). A seguito di queste evidenze, si è passati alla fase due dell’esperimento, ovvero il già citato “mark test”.
In questa fase sui lati del muso di ciascun soggetto sono stati disegnati due segni (da qui il “mark” nel nome del test, cioè “contrassegno”), uno visibile e l’altro non visibile.
Solo uno dei tre individui testati si è mostrato incuriosito dal marchio su un lato del suo riflesso, su cui ha poggiato la proboscide un significativo numero di volte, ma soltanto per un giorno. Anche se questo risultato può apparire meno entusiasmante del precedente, è in verità in linea con quanto riscontrato in altre specie, sottoposte al medesimo test, come per gli scimpanzé (Pan troglodytes), che perdono interesse nel contrassegno dopo appena una ventina di minuti dalla sua scoperta.
Inoltre, c’è un’altra buona ragione per aver scelto proprio gli elefanti come nuovo modello, e va ben oltre la praticità: questa specie ha alcune caratteristiche in comune con le altre già testate: sono tutte specie sociali. La supposizione che è stata fatta è quella che l’autoconsapevolezza sia in relazione con la socialità e quindi con l’empatia, che svolge un ruolo cruciale nelle società animali: una chiara distinzione tra se stessi e gli altri, infatti, potrebbe essere un elemento importante per favorire la coesione sociale.
Un altro interessante contributo alla disamina è stato aggiunto dal recentissimo lavoro di un gruppo di scienziati pisani, che ha eseguito lo stesso test su un campione di quattordici cavalli (Equus caballus). Anche in questo caso, i cavalli, dopo una fase di “ispezione” generale, hanno rivolto la loro attenzione soltanto al marchio visibile, e usato lo specchio per cercare di far convergere i propri movimenti verso il marchio, dimostrando di saper riconoscere la propria immagine sulla superficie.
Il fatto che la risposta a questi test da parte di specie diverse risulti estremamente simile suggerisce che l’autoconsapevolezza possa essere frutto di evoluzione convergente, un fenomeno per cui il medesimo carattere evolve indipendentemente più e più volte e si manifesta in specie anche distanti tra loro in termini di parentela evolutiva.
Il test dello specchio eseguito su esemplari di scimpanzé nati in cattività e quindi isolati dai gruppi che normalmente si formano in natura, sorprendentemente fallisce. Cosa li rende diversi dagli individui selvatici che invece lo passano? La risposta è la medesima cosa che accomuna le specie viste finora: la socialità.
Nonostante i limiti del test, e quindi i risultati ottenuti e le conclusioni tratte, molto dibattute nel tempo, il dato più interessante che emerge tra tutti é la probabile connessione tra consapevolezza, socialità ed empatia: riconoscere sé aiuta a riconoscere gli altri e a riconoscersi negli altri, e probabilmente tutto questo ha rappresentato un buon vantaggio evolutivo, considerando che questo tipo di adattamento potrebbe essere più diffuso di quanto, da Homo sapiens, abbiamo sempre pensato.
Silvia Bordonali
Bibliografia:
- Baragli, C. Scopa, V. Maglieri, E. Palagi45 If horses had toes: demonstrating mirror self recognition at group level in Equus caballus. 2021 Mar 13, Anim Cogn.
- Alexandra Horowitz. Smelling themselves: Dogs investigate their own odours longer when modified in an “olfactory mirror” test. 2017 Oct;1, Behav Processes.
- M. Plotnik, F. B. M. de Waal, D. Reiss. Self-recognition in an Asian elephant. 2006 November, 7, PNAS.
- Reiss and L. Marino. Mirror self-recognition in the bottlenose dolphin: A case of cognitive convergence. 2001, March 8, PNAS.
- G. Gallup Jr. Chimpanzees: Self-Recognition. 02 Jan 1970. Science
- L’ultimo abbraccio, F. De Waal, 2020, Raffaello Cortina Editore.
Articolo scritto da un nostro associato o un collaboratore esterno dell’Associazione ETICOSCIENZA
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